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Itinerario della civiltà contadina


Museo della Civiltà Contadina Carlo Etenli

Val Liona ha ben due musei: uno è un antico mulino risalente al 1400 ed in parte ancora funzionante, chiamato “Mulino Dugo”, l’altro è il Museo della Civiltà Contadina – Fondazione Carlo Etenli.

Descrizione dell’itinerario


Museo della Civiltà Contadina Carlo Etenli

<p>“Entrate in questo museo, dimenticate per un attimo il mondo d’oggi: radio, televisione, cinema, discoteca, cellulari, automobili ecc. Guardate questi attrezzi che testimoniano la povertà, la miseria, l’emigrazione, le umiliazioni, i sacrifici, i sudori, la fame, il freddo, le sofferenze dei nostri padri e delle nostre madri. Cerchiamo di non dimenticare tutto questo, e soprattutto il loro desiderio di creare per noi un mondo migliore”.</p>
<p><em>Carlo Etenli, fondatore del museo della civiltà contadina</em></p>
<p>Con <strong>“civiltà” o “cultura” contadina</strong> vengono generalmente indicate tutte quelle usanze che accompagnavano il mondo rurale che qui in Val Liona si sono conservate fino alla fine degli anni cinquanta del Novecento, e cioè le consuetudini legate al ciclo della vita (la nascita, i giochi dei piccoli, i passatempi dei grandi, il fidanzamento, il matrimonio, la morte), le tradizioni del ciclo dell’anno (le attività agricole, l’influenza della luna, le previsioni del lunario, le festività del calendario liturgico, le ricorrenze dei Santi, i proverbi che scandivano l’andamento della stagione), le manifestazioni popolari (sagre, fiere, mercati) e la cultura orale (filastrocche, conte, cantilene, indovinelli, canti), frutto di una sapienza, di una saggezza più che millenaria.<br />
Questa cultura veniva trasmessa ai più giovani nel contatto quotidiano del lavoro nei campi, nei cortili, o durante i filò, quando ci si raccoglieva nella stalla per sfuggire ai rigori del freddo nelle lunghe giornate invernali.<br />
In questa “scuola di comunità”, come la chiama Ulderico Bernardi, mentre le donne filavano e gli uomini riparavano attrezzi o giocavano a carte, venivano rivissute le storie del paese e le tradizioni, venivano trasmesse le preghiere popolari, i modi di dire, le superstizioni. Qualche esperto narratore, aiutandosi con i gesti e con i bruschi cambiamenti di tono, affascinava gli uditori con le sue storie di santi, di eroi, di orchi o di streghe.</p>
<p>Dopo la seconda guerra mondiale, a partire dagli anni Cinquanta, la nostra società si è rapidamente trasformata, passando da agricola a industriale, per divenire infine società del terziario.<br />
Il progresso tecnologico ha imposto cambiamenti di vita sempre più veloci, forse traumatici per qualche anziano; il benessere economico iniziato negli anni Sessanta ha creato nuovi bisogni che i mass-media pubblicizzano e l’industria fornisce a buon mercato: all’inizio la cucina economica, la radio, il frigo, poi il televisore, la lavatrice, l’automobile e ora il computer, il telefonino, il condizionatore.<br />
Con l’arrivo di questi beni sono scomparsi la vita comunitaria, il gusto della conversazione, gli incontri all’osteria, e con essi è scomparsa anche l’oralità. Ma “quando l’oralità muore e il tempo cancella i ricordi degli anziani, la tradizione finisce”, ha scritto Marisa Milani.</p>
<p>Nel giro di pochi anni è stato cancellato un mondo che era rimasto pressoché immutato per secoli. Tradizioni, usanze, consuetudini di vita, riti stagionali, credenze religiose, conoscenze agricole e abilità artigianali sono andate perdute o dimenticate. Attrezzi di lavoro, oggetti d’uso della vita quotidiana e mobili sono stati inesorabilmente abbandonati sotto le tettoie, riposti nei solai, distrutti, sostituiti con altri oggetti più moderni, più funzionali, costruiti con nuovi materiali e pubblicizzati dalla televisione. Insieme con essi è stato buttato via tutto un mondo di tradizioni, di sapienza, di esperienza: <strong>la cultura contadina</strong>.</p>
<p>Le giovani generazioni non riescono ad immaginare il duro lavoro e gli stenti dei loro nonni, non riescono nemmeno a capirli, perché è andato ormai perduto il contatto con la terra, la conoscenza dei lavori agricoli, il legame con le stagioni, il valore di ogni oggetto, che, una volta esaurita la sua funzione, non veniva gettato via, ma riadattato ad altri usi. Come hanno perduto la manualità dei loro padri quei giovani coltivatori di oggi che, abituati ad usare solo macchine e trattori moderni, non hanno conosciuto gli antichi attrezzi.<br />
E con la fine della cultura contadina si è incominciato a perdere anche il significato di tante parole, e a parlare sempre più spesso in lingua italiana con i figli e nei rapporti sociali, quasi provando vergogna del vecchio dialetto. Non ci siamo accorti che con la perdita del dialetto perderemo la nostra identità, perché la lingua parlata è il primo elemento, il segno più reale di una identità, che durerà finché durerà il dialetto.</p>
<p><strong>Per conservare le testimonianze e i valori di questa civiltà</strong> e per non perdere completamente una parte tanto importante della nostra storia è stato realizzato da <strong>Carlo Etenli</strong>, dopo anni di accurate ricerche, un <strong>museo della civiltà contadina</strong>.<br />
L’obiettivo fin dall’inizio è stato quello di <strong>salvare dal degrado e dalla distruzione gli oggetti dell’attività rurale</strong>, diffusissimi fino a qualche decennio fa. Non certo per voltare le spalle ai benefici che la civiltà tecnologica ci ha regalato, per rimpiangere un mondo senza elettricità, senza acquedotto, senza mezzi di trasporto, senza lavoro come è stata la nostra valle fino agli anni sessanta del Novecento – un mondo che tuttavia ora ci appare felice nella memoria perché rappresenta la giovinezza -, ma per conservare il ricordo del lavoro e delle fatiche dei nostri padri.<br />
<em>“E non ho accumulato e sistemato nel mio museo tutti questi oggetti solo per farli sfuggire al logorio del tempo – avverte il curatore del museo – ma anche perché rimangano vivi, con cura e amore, per le future generazioni e perché nulla di quanto ha segnato la vita e la storia dei nostri padri debba essere dimenticato dai figli. Lo scopo è di mostrare tutto questo ai giovani perché conoscano il loro passato e siano così in grado di capire meglio il loro tempo”</em>.</p>
<p>Nel leggere i nomi degli oggetti, rigorosamente in dialetto, ai più anziani sembrerà di ritornare nelle lontane stagioni della loro gioventù, e sembrerà loro impossibile che in così pochi anni tante cose siano cambiate. Ad altri invece, abituati al linguaggio più colto ma distaccato dei documentari televisivi, forse sfuggirà il significato vero di certi termini, anche perché molte parole che appartenevano al mondo agricolo si sono sfocate o addirittura spente nel ricordo stesso di chi dentro quell’epoca è nato.</p>
<p>Ma è soprattutto ai ragazzi figli o nipoti di chi fu contadino e ora è artigiano, piccolo imprenditore, operaio in fabbrica, impiegato, emigrante, che gli oggetti di questo museo saranno di aiuto, un aiuto a capire com’era il mondo dei loro padri, dei loro nonni, quel mondo che non era cambiato per centinaia d’anni, per tante generazioni di contadini, e che ora sta scomparendo, filare su filare, siepe su siepe, masièra su masièra, riva su riva, lasciato nell’abbandono o spazzato via in un attimo da una macchina escavatrice, perché, concludendo con Carlo Etenli, <strong>“chi non conosce il passato, difficilmente riuscirà a capire il presente e a progettare il futuro”</strong>.</p>
<p> </p>
<p>Il Museo si trova in Via Ca’ Vecchia, 10 (loc. Grancona); è visitabile sabato, domenica e festivi dalle 8.30 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Gli altri giorni su prenotazione.</p>
<p>Tel.: Edoardo 3464090375 – Francesca 3409824604</p>

“Entrate in questo museo, dimenticate per un attimo il mondo d’oggi: radio, televisione, cinema, discoteca, cellulari, automobili ecc. Guardate questi attrezzi che testimoniano la povertà, la miseria, l’emigrazione, le umiliazioni, i sacrifici, i sudori, la fame, il freddo, le sofferenze dei nostri padri e delle nostre madri. Cerchiamo di non dimenticare tutto questo, e soprattutto il loro desiderio di creare per noi un mondo migliore”.

Carlo Etenli, fondatore del museo della civiltà contadina

Con “civiltà” o “cultura” contadina vengono generalmente indicate tutte quelle usanze che accompagnavano il mondo rurale che qui in Val Liona si sono conservate fino alla fine degli anni cinquanta del Novecento, e cioè le consuetudini legate al ciclo della vita (la nascita, i giochi dei piccoli, i passatempi dei grandi, il fidanzamento, il matrimonio, la morte), le tradizioni del ciclo dell’anno (le attività agricole, l’influenza della luna, le previsioni del lunario, le festività del calendario liturgico, le ricorrenze dei Santi, i proverbi che scandivano l’andamento della stagione), le manifestazioni popolari (sagre, fiere, mercati) e la cultura orale (filastrocche, conte, cantilene, indovinelli, canti), frutto di una sapienza, di una saggezza più che millenaria.
Questa cultura veniva trasmessa ai più giovani nel contatto quotidiano del lavoro nei campi, nei cortili, o durante i filò, quando ci si raccoglieva nella stalla per sfuggire ai rigori del freddo nelle lunghe giornate invernali.
In questa “scuola di comunità”, come la chiama Ulderico Bernardi, mentre le donne filavano e gli uomini riparavano attrezzi o giocavano a carte, venivano rivissute le storie del paese e le tradizioni, venivano trasmesse le preghiere popolari, i modi di dire, le superstizioni. Qualche esperto narratore, aiutandosi con i gesti e con i bruschi cambiamenti di tono, affascinava gli uditori con le sue storie di santi, di eroi, di orchi o di streghe.

Dopo la seconda guerra mondiale, a partire dagli anni Cinquanta, la nostra società si è rapidamente trasformata, passando da agricola a industriale, per divenire infine società del terziario.
Il progresso tecnologico ha imposto cambiamenti di vita sempre più veloci, forse traumatici per qualche anziano; il benessere economico iniziato negli anni Sessanta ha creato nuovi bisogni che i mass-media pubblicizzano e l’industria fornisce a buon mercato: all’inizio la cucina economica, la radio, il frigo, poi il televisore, la lavatrice, l’automobile e ora il computer, il telefonino, il condizionatore.
Con l’arrivo di questi beni sono scomparsi la vita comunitaria, il gusto della conversazione, gli incontri all’osteria, e con essi è scomparsa anche l’oralità. Ma “quando l’oralità muore e il tempo cancella i ricordi degli anziani, la tradizione finisce”, ha scritto Marisa Milani.

Nel giro di pochi anni è stato cancellato un mondo che era rimasto pressoché immutato per secoli. Tradizioni, usanze, consuetudini di vita, riti stagionali, credenze religiose, conoscenze agricole e abilità artigianali sono andate perdute o dimenticate. Attrezzi di lavoro, oggetti d’uso della vita quotidiana e mobili sono stati inesorabilmente abbandonati sotto le tettoie, riposti nei solai, distrutti, sostituiti con altri oggetti più moderni, più funzionali, costruiti con nuovi materiali e pubblicizzati dalla televisione. Insieme con essi è stato buttato via tutto un mondo di tradizioni, di sapienza, di esperienza: la cultura contadina.

Le giovani generazioni non riescono ad immaginare il duro lavoro e gli stenti dei loro nonni, non riescono nemmeno a capirli, perché è andato ormai perduto il contatto con la terra, la conoscenza dei lavori agricoli, il legame con le stagioni, il valore di ogni oggetto, che, una volta esaurita la sua funzione, non veniva gettato via, ma riadattato ad altri usi. Come hanno perduto la manualità dei loro padri quei giovani coltivatori di oggi che, abituati ad usare solo macchine e trattori moderni, non hanno conosciuto gli antichi attrezzi.
E con la fine della cultura contadina si è incominciato a perdere anche il significato di tante parole, e a parlare sempre più spesso in lingua italiana con i figli e nei rapporti sociali, quasi provando vergogna del vecchio dialetto. Non ci siamo accorti che con la perdita del dialetto perderemo la nostra identità, perché la lingua parlata è il primo elemento, il segno più reale di una identità, che durerà finché durerà il dialetto.

Per conservare le testimonianze e i valori di questa civiltà e per non perdere completamente una parte tanto importante della nostra storia è stato realizzato da Carlo Etenli, dopo anni di accurate ricerche, un museo della civiltà contadina.
L’obiettivo fin dall’inizio è stato quello di salvare dal degrado e dalla distruzione gli oggetti dell’attività rurale, diffusissimi fino a qualche decennio fa. Non certo per voltare le spalle ai benefici che la civiltà tecnologica ci ha regalato, per rimpiangere un mondo senza elettricità, senza acquedotto, senza mezzi di trasporto, senza lavoro come è stata la nostra valle fino agli anni sessanta del Novecento – un mondo che tuttavia ora ci appare felice nella memoria perché rappresenta la giovinezza -, ma per conservare il ricordo del lavoro e delle fatiche dei nostri padri.
“E non ho accumulato e sistemato nel mio museo tutti questi oggetti solo per farli sfuggire al logorio del tempo – avverte il curatore del museo – ma anche perché rimangano vivi, con cura e amore, per le future generazioni e perché nulla di quanto ha segnato la vita e la storia dei nostri padri debba essere dimenticato dai figli. Lo scopo è di mostrare tutto questo ai giovani perché conoscano il loro passato e siano così in grado di capire meglio il loro tempo”.

Nel leggere i nomi degli oggetti, rigorosamente in dialetto, ai più anziani sembrerà di ritornare nelle lontane stagioni della loro gioventù, e sembrerà loro impossibile che in così pochi anni tante cose siano cambiate. Ad altri invece, abituati al linguaggio più colto ma distaccato dei documentari televisivi, forse sfuggirà il significato vero di certi termini, anche perché molte parole che appartenevano al mondo agricolo si sono sfocate o addirittura spente nel ricordo stesso di chi dentro quell’epoca è nato.

Ma è soprattutto ai ragazzi figli o nipoti di chi fu contadino e ora è artigiano, piccolo imprenditore, operaio in fabbrica, impiegato, emigrante, che gli oggetti di questo museo saranno di aiuto, un aiuto a capire com’era il mondo dei loro padri, dei loro nonni, quel mondo che non era cambiato per centinaia d’anni, per tante generazioni di contadini, e che ora sta scomparendo, filare su filare, siepe su siepe, masièra su masièra, riva su riva, lasciato nell’abbandono o spazzato via in un attimo da una macchina escavatrice, perché, concludendo con Carlo Etenli, “chi non conosce il passato, difficilmente riuscirà a capire il presente e a progettare il futuro”.

 

Il Museo si trova in Via Ca’ Vecchia, 10 (loc. Grancona); è visitabile sabato, domenica e festivi dalle 8.30 alle 12.00 e dalle 14.00 alle 19.00. Gli altri giorni su prenotazione.

Tel.: Edoardo 3464090375 – Francesca 3409824604

Mulino Dugo-Tessari

<p>In Val Liona, come in altre zone dei Colli Berici, i mulini fecero la loro comparsa storicamente <strong>a partire dal XIII secolo</strong>, a seguito dello sviluppo dell’agricoltura, favorito dall’introduzione dell’aratro e dalle bonifiche prima dei Benedettini e poi delle grandi famiglie patrizie veneziane. Il progressivo <strong>aumento della produzione di cereali</strong> determinava la <strong>necessità di lavorarli</strong> per ridurli in farina.</p>
<p>Si diffuse così il mulino, una delle macchine più complesse dell’epoca, che aveva il vantaggio di impiegare un’energia, quella idraulica, che non costava nulla. Nel Medioevo il diritto di costruire mulini e di macinare grano apparteneva al Vescovo o al signore locale, e la Repubblica Veneta si mantenne il diritto di regolamentare l’uso delle acque, per cui i mugnai dovevano presentare una “supplica” per essere “investiti” dell’acqua, per poterla cioè utilizzare per il proprio mulino.</p>
<p>Nel corso dei secoli le sorgenti dei Colli Berici vennero opportunamente incanalate e <strong>lungo le rogge sorsero numerosi mulini</strong>. Alla fine del 1700 ne furono censiti ben 63, di cui <strong>16 nella Val Liona</strong>, zona favorita dal lento defluire delle acque dello scolo “Liona”.</p>
<p>I mulini vennero costruiti là dove si poteva sfruttare il salto dell’acqua.</p>
<p>Attraverso ingegnose canalette in legno l’acqua veniva portata sopra la ruota e fatta precipitare nelle cassette poste sulla corona: il peso dell’acqua nelle “coppe” imprimeva il moto alla ruota e a tutta la macchina (mulino “a coppedello”). In pianura invece al posto delle cassette la ruota aveva delle pale curve che venivano spinte dalla corrente dell’acqua.</p>
<p>I mulini della vallata, ricordati negli atti notarili a partire dal 1500, venivano gestiti in proprio o dati in affitto. In questo caso veniva stimato il valore del fabbricato e dei singoli pezzi del macchinario del mulino.</p>
<p>L’<strong>attività molitoria </strong>in Val Liona<strong> mantenne una certa importanza fino all’ultima guerra</strong>, quando giravano ancora una dozzina di ruote a mulino; ma con il diffondersi dell’energia elettrica e dei mezzi di trasporto, accompagnato dal calo della produzione dei cereali e dalle mutate abitudini alimentari, l’attività è definitivamente emigrata verso la pianura, concentrata nei mulini industriali.</p>
<p>In località Pederiva sono sopravvissuti fino a pochi decenni fa il Mulin de Bicio alle Acque, il Mulino Piombino in via Gianesin e il Mulino Zucca in via Casamento: l’unico attualmente ancora attivo è il <strong>Mulino Dugo Tessari</strong>, in via Gianesin.</p>
<p>Il mulino Dugo ha <strong>due macine di pietra sopra un castello completamente di legno</strong>: quella sotto rimane fissa e quella sopra, dentata, ruota. Lo completano una serie di macchinari ausiliari ed attrezzi, come la “pinza” per alzare le mole, per consentire la scolpitura dei denti. I meccanismi sotto l’impalco sono ora in ferro, come la grande ruota esterna, ma in passato fino al 1930 circa erano di legno, rifatti ed aggiustati centinaia di volte sin dal 1400. Il mulino comunque conserva ancora oggi la struttura e la funzionalità di 600 anni fa.</p>
<p>Quando il mulino è in funzione non si può non rimanere affascinati dalla musica di sottofondo, ovvero quel suono prolungato, sommesso, ma nello stesso tempo intenso, che scaturisce dallo scorrere dell’acqua, dalle pale in movimento della ruota, dai cigolii dei meccanismi, dal grano che scende chicco dopo chicco nella macina e dallo strofinio tra le due ruote di macina in pietra.</p>
<p>Il Mulino è di proprietà della famiglia Tessari alla quale apparteneva <strong>Mario Tessari</strong>, detto “Mario Menin”, il quale è stato <strong>l’ultimo vero “munaro”</strong> dei Berici, una persona che <strong>ha dedicato quasi settant’anni a questo antico mestiere</strong>. Di lui sappiamo che ha cominciato questo lavoro a soli otto anni, condividendo poi per decenni il mulino con i fratelli Antonio e Cesare. I tre lavoravano tutto il giorno e in certi periodi anche di notte. Mario durante la sua vita ha girato in lungo e in largo la Val Liona con un carro trainato da un’asina, con il quale trasportava al mulino il granoturco acquistato dai coltivatori locali e la farina che vendeva poi a tante famiglie e alle trattorie della valle.</p>
<p>Da decenni il mulino è meta di visite da parte di scolaresche, provenienti anche da fuori provincia e da turisti che sul fine settimana passano in Val Liona a visitarlo.</p>
<p>Dopo la scomparsa di Mario Tessari, a mantenere ancora attivo questo antico mulino ancor oggi ci pensano il figlio Roberto e il nipote Diego.</p>
<p> </p>
<p>Il Mulino Dugo si trova in Via Gianesin, 1 (loc. Pederiva); è visitabile, su prenotazione, tutti i giorni della settimana.</p>
<p>Te. 346 6190328 / 347 4906340</p>

In Val Liona, come in altre zone dei Colli Berici, i mulini fecero la loro comparsa storicamente a partire dal XIII secolo, a seguito dello sviluppo dell’agricoltura, favorito dall’introduzione dell’aratro e dalle bonifiche prima dei Benedettini e poi delle grandi famiglie patrizie veneziane. Il progressivo aumento della produzione di cereali determinava la necessità di lavorarli per ridurli in farina.

Si diffuse così il mulino, una delle macchine più complesse dell’epoca, che aveva il vantaggio di impiegare un’energia, quella idraulica, che non costava nulla. Nel Medioevo il diritto di costruire mulini e di macinare grano apparteneva al Vescovo o al signore locale, e la Repubblica Veneta si mantenne il diritto di regolamentare l’uso delle acque, per cui i mugnai dovevano presentare una “supplica” per essere “investiti” dell’acqua, per poterla cioè utilizzare per il proprio mulino.

Nel corso dei secoli le sorgenti dei Colli Berici vennero opportunamente incanalate e lungo le rogge sorsero numerosi mulini. Alla fine del 1700 ne furono censiti ben 63, di cui 16 nella Val Liona, zona favorita dal lento defluire delle acque dello scolo “Liona”.

I mulini vennero costruiti là dove si poteva sfruttare il salto dell’acqua.

Attraverso ingegnose canalette in legno l’acqua veniva portata sopra la ruota e fatta precipitare nelle cassette poste sulla corona: il peso dell’acqua nelle “coppe” imprimeva il moto alla ruota e a tutta la macchina (mulino “a coppedello”). In pianura invece al posto delle cassette la ruota aveva delle pale curve che venivano spinte dalla corrente dell’acqua.

I mulini della vallata, ricordati negli atti notarili a partire dal 1500, venivano gestiti in proprio o dati in affitto. In questo caso veniva stimato il valore del fabbricato e dei singoli pezzi del macchinario del mulino.

L’attività molitoria in Val Liona mantenne una certa importanza fino all’ultima guerra, quando giravano ancora una dozzina di ruote a mulino; ma con il diffondersi dell’energia elettrica e dei mezzi di trasporto, accompagnato dal calo della produzione dei cereali e dalle mutate abitudini alimentari, l’attività è definitivamente emigrata verso la pianura, concentrata nei mulini industriali.

In località Pederiva sono sopravvissuti fino a pochi decenni fa il Mulin de Bicio alle Acque, il Mulino Piombino in via Gianesin e il Mulino Zucca in via Casamento: l’unico attualmente ancora attivo è il Mulino Dugo Tessari, in via Gianesin.

Il mulino Dugo ha due macine di pietra sopra un castello completamente di legno: quella sotto rimane fissa e quella sopra, dentata, ruota. Lo completano una serie di macchinari ausiliari ed attrezzi, come la “pinza” per alzare le mole, per consentire la scolpitura dei denti. I meccanismi sotto l’impalco sono ora in ferro, come la grande ruota esterna, ma in passato fino al 1930 circa erano di legno, rifatti ed aggiustati centinaia di volte sin dal 1400. Il mulino comunque conserva ancora oggi la struttura e la funzionalità di 600 anni fa.

Quando il mulino è in funzione non si può non rimanere affascinati dalla musica di sottofondo, ovvero quel suono prolungato, sommesso, ma nello stesso tempo intenso, che scaturisce dallo scorrere dell’acqua, dalle pale in movimento della ruota, dai cigolii dei meccanismi, dal grano che scende chicco dopo chicco nella macina e dallo strofinio tra le due ruote di macina in pietra.

Il Mulino è di proprietà della famiglia Tessari alla quale apparteneva Mario Tessari, detto “Mario Menin”, il quale è stato l’ultimo vero “munaro” dei Berici, una persona che ha dedicato quasi settant’anni a questo antico mestiere. Di lui sappiamo che ha cominciato questo lavoro a soli otto anni, condividendo poi per decenni il mulino con i fratelli Antonio e Cesare. I tre lavoravano tutto il giorno e in certi periodi anche di notte. Mario durante la sua vita ha girato in lungo e in largo la Val Liona con un carro trainato da un’asina, con il quale trasportava al mulino il granoturco acquistato dai coltivatori locali e la farina che vendeva poi a tante famiglie e alle trattorie della valle.

Da decenni il mulino è meta di visite da parte di scolaresche, provenienti anche da fuori provincia e da turisti che sul fine settimana passano in Val Liona a visitarlo.

Dopo la scomparsa di Mario Tessari, a mantenere ancora attivo questo antico mulino ancor oggi ci pensano il figlio Roberto e il nipote Diego.

 

Il Mulino Dugo si trova in Via Gianesin, 1 (loc. Pederiva); è visitabile, su prenotazione, tutti i giorni della settimana.

Te. 346 6190328 / 347 4906340